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Rio+20
Rio+20 diventa il punto di partenza di un vasto processo di trasformazione 

I giudizi sui risultati del Summit di Rio sono per lo più negativi: chi parla di fallimento, chi di inutilità; tutti comunque mettono in evidenza l’enorme contrasto di interessi tra gli stati che ha impedito di formulare impegni seppur minimi per una “economia verde” e per uno sviluppo sostenibile.

 

In realtà nel documento finale (“Il futuro che vogliamo” in tutto 283 paragrafi http://www.uncsd2012.org/rio20/thefuturewewant.html e selezionare la lingua) sono espressi grandi obiettivi per il superamento della povertà, per una profonda riconversione economica, per il potenziamento di una tecnologia sostenibile e per impedire il cambiamento climatico.

Grandi obiettivi e nessun impegno, nessun strumento, nessun piano né regionale né globale.

 

Hanno partecipato le delegazioni di 188 paesi (circa 12.000 delegati), con 100 capi di stato, 9.800 Organizzazioni non governative e grandi gruppi, in tutto oltre 45.000 presenti. La scelta che hanno compiuto è stata quella di affidarsi al “mercato”, cioè allo scontro di interessi che oggi contrappone, in modo contradditorio rispetto agli scenari politici cui siamo abituati, le grandi regioni del pianeta.

 

Va rilevata uno scarso impegno dei paesi occidentali e dell’Europa e in particolare la scarsissima informazione da parte dei media: il summit ha avuto meno rilevanza di un episodio di cronaca; in particolare tutti si sono affrettati a sottolineare che il summit era stato inutile. Solo la presidente del Brasile Dilma Rousseff che ha presieduto la conferenza ha dichiarato con forza che la dichiarazione degli obiettivi è comunque un risultato di grande valore, perché tutti i paesi ed i popoli dovranno fare i conti con obiettivi che sono stati sottoscritti da tutti e che restano scritti.

 

Tutti i paesi oggi sono vincolati ad un modello di sviluppo che spreca una grande quantità di risorse, che determina un rapido riscaldamento del pianeta con effetti sconvolgenti in tutte le aree, che è incapace a accompagnare la crescita dell’umanità e la cooperazione globale per la salute e per il lavoro decente.

 

Il vertice di Copenaghen era stato preparato con importanti ricerche sul clima che avevano messo in evidenza oltre ai gravi pericoli in atto, soprattutto l’incapacità di prevedere l’evoluzione dei fenomeni e la consapevolezza che il cambiamento climatico non avrebbe potuto retrocedere una volta innescato. Ciò tuttavia il vertice di Copenaghen aveva accettato l’ipotesi di un aumento di 2°C della temperatura a fine secolo. Oggi gli studi (come quello pubblicato su “Nature Climate Change”) indicano che lo scenario accettato sarebbe già causa di un aumento (entro i due secoli) di 2 metri e mezzo del livello del mare, cioè l’allagamento permanente di New York (e la cancellazione di vastissime aree).

 

La mancanza di impegni nella riduzione delle emissioni a effetto serra, ha manifestato la sua vera natura soprattutto negli anni successivi con lo scatenarsi della guerra finanziaria e l’esplosione del debito dei paesi industrializzati: il vero scontro è quello sulle risorse e il vero problema è la non volontà delle maggiori potenze di modificare il modello di sviluppo, dei consumi e la tecnologia, a partire dall’abbandono del petrolio come energia fondamentale.

 

Le ragioni per cui a Rio+20 i paesi del mondo non hanno condiviso impegni.

 

Nel 2050 l'umanità si troverà ad utilizzare annualmente 140 miliardi di tonnellate di minerali, combustibili fossili e biomasse, rispetto ai 60 miliardi di tonnellate consumati attualmente. Il pianeta non può mantenere un simile aumento della domanda di risorse senza gravi conseguenze per l'umanità e gli ecosistemi.

 

Già attualmente, se tutti i paesi utilizzassero risorse in proporzione a quelle utilizzate dagli Stati Uniti, sarebbero necessari sette pianeti come la terra; se tutti i paesi utilizzassero risorse in proporzione a quelle utilizzate dall’Europa, sarebbero necessari 3 pianeti come il nostro.

 

Considerando le risorse riproducibili, secondo le stime del Global Footprint Network oggi l’umanità, nel suo insieme, utilizza l’equivalente di 1,3 pianeti. Ciò significa che la terra ha bisogno di 1 anno e 4 mesi per riprodurre quello che noi utilizziamo in un anno.

 

Il risultato di ciò consiste nell’esaurimento delle risorse di pesca, la diminuzione della superfici coperte da foreste, il degrado delle riserve di acqua dolce, l’aumento delle emissioni inquinanti e dei rifiuti che generano il cambiamento climatico.

Questo provoca conflitti e guerre per il controllo delle risorse, migrazioni di massa, fame ed epidemie

 

Secondo uno studio commissionato e reso noto dall'Inter-American Development Bank (IDB), i danni causati dal cambiamento climatico globale potrebbero costare all'economia dei paesi sudamericani qualcosa come 100.000 milioni di dollari all'anno fino al 2050

 

Già oggi in molte aree del mondo il clima è cambiato come effetto della modificazione della meccanica delle correnti atmosferiche e oceaniche: forse non si può ritornare indietro, però certamente si può impedire che questo processo continui e amplii i propri effetti.

 

Considerato che il Sudamerica produce solo l'11% delle emissioni globali di gas serra, si dimostra una zona molto vulnerabile ai cambiamenti climatici in quanto dipendente dalle sue risorse naturali.

Secondo il rapporto inoltre entro il 2050 si assisterà a una perdita cospicua di esportazioni agricole nella regione quantificabile introno ai 30.000 e ai 52.000 milioni di dollari. In sostanza secondo la IDB tali perdite potrebbero tradursi in una limitazione delle possibilità di sviluppo economico del continente, e potrebbe peggiorare l'accesso alle risorse naturali

 

Considerando le risorse minerali e fossili, il forte aumento del consumo provoca un rapido esaurimento delle risorse più superficiali, un notevole aumento dei costi di estrazione e tendenzialmente una progressiva indisponibilità di molti materiali.

 

Lo sviluppo industriale e la sua estensione planetaria è stata guidata solo dalla ricerca delle opportunità più facili e meno costose; la sua crescita non si è accompagnata ad una progressiva trasformazione qualitativa con la riduzione delle risorse utilizzate e una razionale proporzionalità del loro utilizzo tra le varie aree del mondo.

 

Se solo consideriamo il trasporto, una delle principali cause di emissioni a effetto serra e di consumo massivo di risorse fossili, vediamo che nell’arco di un secolo non ha saputo innovare la tecnologia del motore a scoppio, non ha incentivato la ricerca di nuovi carburanti riproducibili come le biomasse e l’idrogeno, anzi ha ostacolato le esperienze importanti di biocarburanti.

 

Se consideriamo il patrimonio umano che da questo sviluppo dovrebbe essere beneficiato, rileviamo gli effetti negativi dello stesso modo di produrre.

L’organizzazione Mondiale della Sanità prevede che nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di invalidità nel mondo. Secondo la Associazione delle Compagnie di Assicurazione canadese circa il 40% delle prestazioni di invalidità sono ricollegate a problemi di salute mentale. Il costo annuale riferito a queste problematiche in Canada supera i 33 miliardi di dollari.

In Italia la previsione del costo dei danni da lavoro al 2012 è stimato pari a 51,9 mld. di euro (circa il 3,06 del PIL), considerando una riduzione della quota del lavoro sommerso al 12% e sotto il raggiungimento dell’obiettivo della strategia comunitaria che prevede una contrazione del 25% dei tassi standardizzati di incidenza infortunistica nel periodo 2007-2012.

Secondo l’Agenzia Europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, in Europa ogni anni 4,9 milioni di persone hanno un infortunio con più di tre giorni di inabilità, il costo di questo incide tra il 2,6 e il 3,8 del PIL per ogni paese.

Nell’Unione Europea circa 1 miliardo e 250 milioni di giornate sono assenze causate da problemi di salute sul lavoro.

In America Latina si registrano circa 30 milioni di infortuni all’anno, con 240.000 morti; la Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che lavorino circa 17,5 milioni di bambini con meno di 14 anni, dei quali 22.000 muoiono ogni anno per infortunio.

 

Il nostro compito

 

L’impegno che ci siamo dati è di diffondere con il nostro sistema di gestione un metodo e uno strumento che aiuta tutte le imprese a entrare nella nuova logica dello sviluppo.

Dopo la crisi finanziaria l’aumento dei costi di approvvigionamento e la sfida “verde” saranno le frontiere a cui le imprese devono prepararsi.

Noi siamo al loro fianco per aiutarle.

L’importante è che si capisca che non siamo in un processo ordinario e con tempi lunghi: il modo in cui la crisi finanziaria è esplosa insegna che il salto da compiere è difficile e deve essere rapido.

 

Il problema non è dei commentatori, che cercano nelle dichiarazioni della diplomazia le affermazioni politiche positive o negative. Piuttosto la realtà dei prossimi anni obbligherà tutte le economie a fare i conti con la limitatezza delle risorse e con la necessità di una riconversione produttiva rapida e consistente.

Non sarà una sponda la guerra finanziaria e non ci sarà spazio neppure per la guerra militare: l’apparato produttivo, i miliardi di produttori che nel mondo popolano i mercati, dovranno entrare nella logica di nuovi metodi e di compatibilità con il bilancio del pianeta.